L’ESTETICA ESPANSA: IL DANNUNZIANESIMO, I MEDIA E L’ “ESPLOSIONE DELL’ESTETICA” - PT 2

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L’11 settembre del 1919, il Poeta, seppur febbricitante, raggiunge a Ronchi circa 2600 uomini, ribattezzati “legionari”, presentandosi in automobile.

D’Annunzio lega così il mito della macchina e del moderno, che si ritrova in Forse che si forse che no (e che sarà fatto proprio successivamente dai Futuristi), all’impresa eroica; impresa che finirà per risolversi nell’uso di altre macchine, quelle da guerra.

Il 12 Settembre prende possesso della città.

D’Annunzio, assieme al suo gabinetto di governo, crea addirittura uno Stato, la Reggenza Italiana del Carnaro, proclamata ufficialmente il 12 agosto 1920. In questo contesto fu promulgata la Carta del Carnaro, la costituzione fiumana redatta da Alceste De Ambris ma che risente evidentemente dell’influenza di D’Annunzio, soprattutto nelle battute finali.

Fu inventato un nuovo vessillo per il nascente Stato, che divenne il rifugio di molti perseguitati politici, anarchici e rivoluzionari.

Fiume si presentava come una surreale capitale dell’eversione internazionale e della fantasia al potere. Nel novembre del 1920 D’Annunzio e i suoi decisero di rifiutare il Trattato di Rapallo.

L’esercito italiano fu allora inviato contro i “legionari” fiumani, in quello che il Poeta definì «Natale di sangue». Qua e là anche gli storici si sono accorti della valenza estetica dell’esperimento fiumano.

Si pensi a quanto scrive Giuseppe Parlato: «D’Annunzio per le sue caratteristiche di esteta e di narciso fu attratto dall’aspetto creativo dell’avventura rivoluzionaria di Fiume, che gli permetteva di esternare le sue caratteristiche» o, ancora, Salerno, in un passo del suo D’Annunzio e i Savoiaafferma: «D’Annunzio è sempre stato più poeta che politico». Si veda poi la Carta del Carnaro: sembra di trovarsi dinanzi a un documento “sessantottino”.

Visioni della società tanto libertarie si potevano trovare, forse, soltanto in manifesti anarchici o delle prime avanguardie artistiche. All’articolo 2 si diceva che «la Repubblica del Carnaro[…] conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione».

La Carta del Carnaro fu pensata come un’opera letteraria.

A riprova di ciò il testo venne pubblicato nel volume Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento che raccoglieva diversi scritti dannunziani. Per tornare all’interpretazione di Fiume come città costituitasi in “opera d’arte totale” è utile riportare quanto scritto da Luciano Curreri: «Per gli storici, i critici e anche, e forse soprattutto, per gli scrittori, per gli artisti, il logoramento del tempo che, fra la fine del 1919 e la fine del 1920 si impossessa di Fiume e di D’Annunzio, produce un luogo affascinante come pochi, quasi un cronotipo idillico alla Bachtin […] Dico quasi proprio perché Fiume parte semmai come cronotipo in crescita, ovvero dotato in potenza di una reale crescita spazio-temporale, a Occidente come a Oriente, e in tal senso aspira anche a fondere, in modo non così celato, implicito, la ricostruzione del mondo e dell’uomo reale con la distruzione di ogni legame consueto e la creazione di vicinati inattesi, di legami inattesi […] si assiste a un’attenuazione di tutti i confini del tempo, Fiume sembra diventare l’unità di luogo che avvicina e fonde la culla e la tomba […] l’infanzia e la vecchiaia […] Fiume diventa anche un buon posto per morire, un buon trampolino per un tuffo nell’eternità o nel futuro, dove fondersi con le generazioni a venire e, in un certo senso, dove poter resistere, ritornare». Nell’illuminata e illuminante lettura dell’esperienza fiumana, svolta dalla storica dell’arte Claudia Salaris nel suo saggio Alla festa della rivoluzione, la studiosa identifica diversi punti in comune tra fiumanesimo, avanguardismo e addirittura controcultura giovanile degli anni ‘60.

Tra i legami individuati, scrive l’autrice, «la determinazione a osare l’inosabile», che anticipa «la surrealistica immaginazione al potere che vivificherà il Maggio parigino; la forte carica di soggettività di massa;

l’importanza data alla festa e al gioco come strumenti liberatori; la libertà sessuale l’esaltazione del corpo; la centralità della passione[…] la circolazione delle droghe[…] l’antiimperialismo; le tematiche dei diritti civili[…] la priorità data alla vita di gruppo e il rifiuto della famiglia borghese». Ne viene fuori l’immagine di D’Annunzio e dei suoi più come artisti d’avanguardia che come prototipi di uomini d’ordine fascisti.

La valenza prettamente creativa dell’impresa fiumana è una riprova di come l’azione politica di D’Annunzio (così come ogni altro aspetto della sua esistenza) andrebbe considerata unicamente sotto il profilo artistico-performativo (in anticipo rispetto a tante pratiche successive, in primis il gesto futurista e dadaista). Ciò che è stato detto sinora rende conto di quanto sia presente, nell’“universo D’Annunzio”, un’incessante commistione tra ambiti differenti; dalla letteratura alla pubblicità, dal cinema alla propaganda. I dati biografici e le azioni reali infarciscono l’arte e quest’ultima innalza la vita ad uno stato superiore, in cui mito, realtà, tradizione, simbolo, storia si intrecciano fino a divenire inestricabili.

In ogni atto del Vate si intravede tanto un esperimento di mitizzazione artistico-simbolica del Sé quanto una lucida e modernissima operazione di marketing. Si pensi all’amore con Eleonora Duse.

Di certo D’Annunzio controllava e, in un certo senso, “allestiva”, proprio come uno spettacolo, il coté mondano e scandalistico di quella relazione. Fu anche per questa continua esposizione celebrativa (oltre che per lo sfiorire della giovinezza della diva) che il rapporto tra i due si interruppe. Forse, la Duse, da un certo momento in poi, non costituì più un valido strumento per la spettacolarizzazione del “vivere inimitabile” e, dunque, la donna venne sacrificata da D’Annunzio in nome dell’ideale della Vita che deve farsi Arte, obiettivo da perseguire ad ogni costo. L’uomo che ha incarnato e prefigurato i più attuali e spregiudicati sistemi di comunicazione e che ha utilizzato perfino l’amore per fare della sua vita un’opera d’arte, avrebbe mai potuto ignorare un mezzo nuovo e potente come il cinema? Il cinema per D’Annunzio, lungi dal costituire una semplice risorsa economica, si presenta, dunque, come un interesse artistico e intellettuale sincero.

L’incontro del Vate con i nuovi mezzi di comunicazione di massa si radica in quella tensione spasmodica a rendere tutto “arte”, che appare oggi il tratto più sconvolgente del dannunzianesimo e che si è voluto qui racchiudere nel concetto di “estetica espansa”. Pubblicità, politica, teatro, cinema, letteratura, amori, imprese belliche, sono tante tappe di un percorso, quello dannunziano, che vede il Poeta farsi banditore di un’estetica totalizzante, capace di attraversare indistintamente tutti i campi e di vivere nel sogno costante di trasformare, alla maniera del re Mida, tutte le cose in oro, tutte le cose in arte.

Giuseppe Alletto